Galileo e l'infinito

11 febbraio 2012


Galileo si occupò approfonditamente dell’infinitamente piccolo, utile per lo sviluppo della dinamica, nell’opera “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze” pubblicata nel 1638, pochi anni prima della morte. Meno nota del “Discorso sopra i due massimi sistemi del mondo”, ma non meno importante, segnò nell’ambito dell’infinito  un punto di svolta rispetto alla tradizionale filosofia aristotelica. Dove, ad essere precisi, Aristotele stesso aveva ammesso che l’infinito crea problemi (paradossi) sia negandolo che affermandolo, bisogna inoltre tenere presente che, data la problematicità posta dalla datazione degli scritti aristotelici, è difficile riuscire a stabilire chiaramente quale fosse la posizione aristotelica, tanto più che le sue definizioni di infinito potenziale ed il atto non sono del tutto chiare e prive contradizioni intrinseche, che portarono il filosofo a fare delle affermazioni decisamente imbarazzanti per la grande mente quale era.
Potremmo dire che Galileo fu il primo scienziato a toccare l’infinito in atto, infatti, egli affermò che se una retta può essere divisa in tante parti a loro volta ulteriormente divisibili, se ne deve dovutamente dedurre che è composta da infinite parti, che per essere infinite devono essere “non quante”, vale a dire senza estensione, perché altrimenti sarebbero finite. La retta diventa in tal modo un infinito in atto. Galileo annulla quindi implicitamente il concetto di infinito potenziale, lasciando solo quello in atto. A questo proposito egli stesso commenta “che questo sia in atto o in potenza fate come più vi piace”. Dietro questa apparente indifferenza galileiana alla categoria d’appartenenza dell’infinito, si cela il superamento dell’idea di infinito in atto come formulata da Aristotele, che nel nuovo intendimento scientifico non trovava più ragion d’essere.
Nell’ambito dello studio sugli “infiniti” Galileo compie un passo ancora più importante,  introducendo un nuovo modello d’infinito, ottenuto elaborando il rapporto “uno a uno”, la cosiddetta corrispondenza biunivoca tra i numeri ed i loro quadrati, così facendo dimostrò, che ci sono tanti numeri quanti quadrati, mettendo in relazione due insiemi infiniti, o meglio l’insieme dei numeri interi con il suo sottoinsieme composto da quadrati,
1 ↔ 1
2 ↔ 4
3 ↔ 9
… …
n ↔ n2
… …
Scoprendo in tal modo una proprietà importante dell’infinito, e cioè che un insieme infinito può essere uguale ad un suo sottoinsieme che ne comprende solo una parte e non la totalità dell’insieme; ciò era in aperto contrasto con quanto postulato da Euclide, in base alla semplice evidenza logica che una parte è minore del tutto. Galileo tuttavia non si spinse fino ad affermare che i due insiemi fossero uguali, ma si limitò a fare dire a Salviati: “Gli attributi di eguale maggiore e minore non hanno luogo ne gl’infiniti, ma solo nelle quantità determinate”. Capì, ma non ebbe il coraggio di fare il passo decisivo,  preferì essere prudente nell’esplorazione dell’infinito ed non inoltrarsi oltre nell’argomento, abbandonando la ricerca ad uno stadio precedente quello raggiunto dal suo maestro Archimede.
Le perplessità galileiane sul paradosso messo in luce furono risolte poco tempo dopo da Cartesio, il quale comprese che il paradosso costituiva una caratteristica pensabile per ogni insieme infinito. Gli insiemi infiniti non potevano che trascendere ed essere al di fuori degli schemi e regole del finito e degli insiemi finiti, capovolgendo così l’intero approccio tradizionale all’infinito, prefigurando la matematica moderna, che giungerà a definire il finito in base all’infinito.
La prossima volta vedremo come Archimede si diverte a fare vere e proprie capriole con l’infinito, e quanto grande ed incolmabile fosse ancora la distanza tra maestro e allievo.


0 commenti:

 
Image du Blog confinianima.centerblog.net
Source : confinianima.centerblog.net